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Trascinati nell'Abisso di Davide Enia

“Il primo sbarco l’ho visto a Lampedusa assieme a mio padre. Approdarono al molo in tantissimi, ragazzi e bambine, per lo più. Io era senza parole. Era la Storia quella che ci era accaduta davanti. La Storia che si studia nei libri e che riempie le pellicole dei film e dei documentari”. Lampedusa come metafora di un naufragio, personale e collettivo. Davide Enia attinge ai suoi Appunti per un naufragio (Premio letterario Mondello 2018) per portare in scena domenica 17 febbraio al Teatro degli Atti (ore 21) un racconto urgente, profondo, attuale. Con L’abisso l’attore e scrittore, accompagnato dalla musica dal vivo di Giulio Barocchieri, dà voce allo spaesamento, al dolore e alla rabbia che emerge dal grande dramma contemporaneo degli sbarchi sulle coste del Mediterraneo. Ne L’abisso si usano i linguaggi propri del teatro (il gesto, il canto, il cunto) per affrontare il mosaico di questo tempo presente. “Quanto sta accadendo a Lampedusa non è soltanto il punto di incontro tra geografie e culture differenti. È per davvero un ponte tra periodi storici diversi – dice Enia - il mondo come l’abbiamo conosciuto fino a oggi e quello che potrà essere domani. Sta già cambiando tutto. E sta cambiando da più di un quarto di secolo”. L’attore ha trascorso molto tempo sull’isola “per provare a costruire un dialogo con i testimoni diretti – racconta - i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori. Rispetto al materiale che avevo precedentemente studiato, in quello che stavo reperendo di persona c’era una netta differenza: durante i nostri incontri si parlava in dialetto. Si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, il vuoto improvviso che frantumava la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, «‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice», la miglior parola è quella che non si pronuncia”. 


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